Architettura razionalista a Roma, i palazzi delle Poste edificati nel ventennio fascista rappresentano un atto di propaganda prima che un servizio ai cittadini.
Nel 1932 l'architettura razionalista a Roma è nel suo massimo splendore. La capitale è in piena fase di rinnovamento grazie all’attuazione di un’innovativo Piano Regolatore 1931, il Ministro delle Comunicazioni Galeazzo Ciano decise, insieme all’Amministrazione delle Ferrovia dello Stato, di indire un concorso per la progettazione di nuovi edifici postali a servizio dei cittadini.
Alla scadenza dei quattro concorsi, 136 progetti vennero presentati all’Amministrazione postale; il bando A inerente al quartiere Appio venne vinto dall’arch. Giuseppe Samonà, il progetto B dell’Aventino dall’arch. Adalberto Libera, il progetto C destinato a Milvio dall’arch. Armando Titta e l’ultimo, il D, destinato al quartiere Nomentano, dall’arch. Mario Ridolfi.
La commissione, presieduta dal Direttore generale delle allora Poste e Telegrafi, Giuseppe Pession, era composta da Carlo Broggi, Alberto Calza Bini, Enrico del Debbio, Gustavo Giovannoni, Giuseppe Pagano e Giuseppe Vaccaro: si tratta di personaggi di spicco dell’architettura e dell’urbanistica dei primi decenni del XIX secolo, elemento che mostra la totale attenzione posta all’intero intervento dalla macchina statale. La propaganda era atta a monumentalizzare quelli che erano gli edifici di pubblica utilità, “monumenti” visibili e fruibili da ogni cittadino, spazi catalizzatori degli ideali fascisti; stazioni, palazzi giudiziari e case del Mutilato sono solo alcuni dei nuovi landmark urbani delle città italiane, poste comprese.
Gli elaborati grafici del palazzo delle Poste Appio mostrano che fu un progetto in continua evoluzione, anche dopo la vittoria del concorso da parte dell’architetto Samonà, tanto che alcune modifiche vennero effettuate a cantiere quasi concluso, nel novembre del 1935.
L’edificio andava a saturare un’area urbana lasciata vuota nell’espansione novecentesca del quartiere, uno spazio trapezoidale alquanto limitato che presenta tre fronti strada su quattro lati; i due ingressi principali, planimetricamente speculari rispetto allo spigolo concavo che raccorda due dei prospetti dell’edificio, permettono una circolazione del pubblico tutta nella zona esterna, mentre gli uffici e i servizi postali si sviluppano attorno a uno spazio centrale comune che funge da filtro connettivo fra i vari vani ad utilizzo del personale impiegatizio.
I piani fuori terra sono tre, necessità di elevarsi data dal ridotto sedime in pianta; sopra uno zoccolo in travertino bianco di Tivoli, che gira tutto attorno all’edificio, si aprono lungo via Taranto e via Pozzuoli sette finestrature a tutta altezza intervallate da pilastri rivestiti in gneiss di Samolaco. In principio l’architetto aveva previsto un rivestimento in lastre di marmo verde oliva della Val d’Adige, ma a causa delle complesse difficoltà del reperirlo si dovette ripiegare sul gneiss.
Alle forme classiche dei pilastri che il razionalismo di Samonà riprese dai templi romani corrisponde un rivestimento superiore estremamente opaco, dove la parte superiore della facciata riprende lo stesso travertino dello zoccolo inferiore. Le lastre della bianca roccia calcarea incorniciano le finestre rettangolari degli ultimi due piani e sono poste in asse con le bucature del piano terra, definiscono di fatto una continuità del materiale massiva e schematica; assoluta smaterializzazione al piano terra, materica possanza agli altri due livelli.
Il corpo scala principale, disposto lungo il fronte di via Taranto, è denunciato dai profondi tagli orizzontali del travertino: si tratta di elementi che producono netti chiaroscuri diurni, interrompendo la geometria pressoché statico del fronte lungo via Taranto.
Il fronte secondario su via La Spezia è contraddistinto dal portale in travertino centrale inserito in una scacchiera di montanti e traversi dello stesso materiale, mentre, in leggero sottosquadro, il resto della parete è un continuo filare di clinker gialli a imitazione di una cortina in laterizi; sette finestrature verticali permettono di illuminare i due piani superiori, celando il solaio presente fra il primo e il secondo livello. Questa soluzione compositiva delle bucature accentua il verticismo di un blocco eccessivamente orizzontale, coniugando utilità, abbondante luce naturale portata dentro l’edificio, ed estetica.
L’ingegno dell’architetto è ben visibile nel salone principale, per quanto questo sia stato oramai irrimediabilmente modificato per adeguare lo spazio alle esigenze contemporanee.
Il pavimento e la parete di fondo sono rivestiti di candido Carrara, le cui lastre sono disposte a macchia in modo tale da poter disporre le venature del materiale per creare giochi compositivi; il soffitto, tinteggiato con una vernice verde mare, è tagliato cromaticamente dai pilastri rivestiti di marmo nero Col di Lana che ne interrompono la continuità.
La parete curva che all’epoca separava lo spazio del salone dalla sala di scrittura fu intonacata con vernice nitrocellulosa, mentre nelle primigenie intenzioni di Samonà sarebbe dovuta essere rivestita di costosissimo vetro nero “Fontanit“
Questo secondo palazzo delle Poste si trova fra il colle Aventino e le mura Aureliane, in corrispondenza del complesso monumentale di Porta San Paolo, della Piramide Cestia inglobata nelle mura romane e del cimitero acattolico; isolato rispetto ad altri edifici, il compatto corpo di fabbrica sorge leggermente rialzato rispetto al fronte strada, ed raggiungibile mediante un'imponente scalinata frontale.
L’apparente unicità dell’edificio è in realtà il sapiente frutto di tre distinti volumi giustapposti, schema che esplicita le funzioni differenti; salito il dislivello, troviamo un portico architettonicamente autonomo che immette nel salone destinato al pubblico, il secondo volume. Si tratta di uno spazio a pianta ellittica allungato che si eleva oltre l’altezza del portico, enunciato la sua presenza con uno schema geometrico ripetuto di vetro-cemento.
Il terzo volume, quello principale, è il corpo di fabbrica a “C”, edificio che ricorda un palazzo gentilizio a corte privato della prospiciente parte speculare; se al piano terra trovano posto i servizi postali, ai piani superiori nelle ali una più fitta scansione dei vani destina questi ambienti gli uffici. Separato, lo spazio a doppia altezza che si affaccia sul retro è destinato allo smistamento della posta.
I colori stessi concorrono a separare i tre volumi, dove lo scuro portico antistante rivestito da lastre di porfido di Predazzo lucido si staglia nettamente rispetto al travertino bianco di Tivoli che riveste gli alzati del corpo centrale.
In corrispondenza delle testate principali delle due ali si trovano i corpi scala, la cui struttura portante diagonale delle rampe viene evidenziata in facciata da una tessitura più sottile specchiata che diagonalmente gli fa da contraltare; si tratta di una fissa plasticità geometrica che rende diafana la parete, permettendo a chi osserva la facciata di intuire le travi inclinate a sbalzo del corpo scala interno. È una simmetrica contropendenza delle travi e dei travetti che va a bilanciare la simmetrica composizione dell’intero fronte dell’edificio.
Il retroscardina la logica degli altri tre fronti; una fitta griglia “pixelata” di piccole aperture quadrate ripetute su nove file – elemento ripreso dai tipici colombari romani – è posta in corrispondenza del vano dello smistamento della posta.
L’interno del salone destinato al pubblico è scandito spazialmente dalla presenza di sottili pilastri circolari rivestiti di alluminio, mentre la zona che delimita lo spazio degli addetti viene creato mediante l’inserimento di un unico bancone curvilineo estremamente fluido; i pavimenti e gli alzati sono rivestiti da due marmi espressamente ricercati dall’arch. Libera, ovvero il verde di Issorie e il marmo di Calacatta di Vagli.
Editor della sezione arte
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