Jackson Pollock, il pittore americano caposcuola dell'espressionismo astratto è senz'altro una figura di spicco per l'arte moderna del XX secolo.
Paul Jackson Pollock nasce il 28 gennaio del 1912 a Cody, nel Wyoming.
Molto probabilmente il pittore americano più famoso del XX secolo è umanamente considerato il massimo rappresentante dell’action painting, termine – coniato nel 1952 da Harold Rosenberg in un saggio pubblicato sulla rivista “ARTnews” – che indica la corrente dell’espressionismo astratto americano sorto nel Secondo dopoguerra.
Il suo stile pittorico inconfondibile è dominato dal segno spontaneo, immediato e carico di energia.
Anticonformista e amante della sperimentazione, Pollock diventa egli stesso il mezzo d’espressione della propria arte, attraverso cui, a sua volta, riflette la propria introspezione psicologica.
I ritmi caotici dei colori che popolano la sua anima vengono, così, trasferiti sulla tela con grande maestria fino a quando, il fitto ed intricato tessuto interiore diventa un groviglio insensato e impenetrabile.
Jackson Pollock, per molti non era un pittore americano. Forse non bisogna neanche troppo sorprendersi se quelle macchie di colore, gettate sulla tela senza alcuna logica apparente, all’inizio non venivano comprese dal grande pubblico.
“Questa non è arte, è uno scherzo di cattivo gusto” scriveva, nel 1959, un critico del “Reynolds News” a proposito dell’ultima esposizione di Pollock tenutasi a New York. D’altra parte, non incontravano nemmeno il favore di molti esperti, i quali percepivano quegli spruzzi di vernice come una minaccia, una provocazione “oltraggiosa” nei confronti dei canoni figurativi tradizionali.
Quello che resta, di fatto, è che Pollock rivoluzionò il paradigma artistico mondiale e che, grazie a lui, per la prima volta una città statunitense riuscì ad affermarsi come capitale mondiale dell’arte, rubando la scena perfino a Parigi.
Non sarebbe sbagliato, dunque, definirlo come il primo, vero, “artista americano”.
Nel 1947 Pollock realizza Alchemy, uno dei suoi capolavori destinato a diventare un’icona dell’arte contemporanea statunitense.
In questo dipinto l’artista mette a punto il dripping (o “sgocciolamento”), la tecnica con la quale faceva colare la vernice sulla tela stesa orizzontalmente sul pavimento.
L’opera conquista la critica, affascinata da questo nuovo modo di operare, segnando un punto di svolta nella carriera del caposcuola dell’espressionismo astratto.
Gli anni a seguire sono molto fecondi dal punto di vista creativo e Pollock sembra cavalcare l’onda della fama.
Nel 1949 appare sulla rivista “LIFE” in un servizio intitolato “È il più grande pittore vivente degli Stati Uniti?”. La risposta era scontata.
Il dripping, così spontaneo e “casuale”, era riuscito a fare dell’atto creativo una parte integrante dell’opera. E fu proprio l’interesse per questo processo creativo che spinse il regista Hans Namuth a realizzare un cortometraggio sulla innovativa tecnica messa a punto da Pollock.
In Jackson Pollock ‘51 (1950) la telecamera di Namuth inquadra l’opera da una prospettiva unica. Il regista sceglie, infatti, di posizionarla dietro una lastra di vetro che, poco a poco, inizia a riempirsi di schizzi di vernice colorata. Fortemente influenzato dalla tecnica del sand painting dei nativi americani, che aveva scoperto negli anni Quaranta, Pollock nel corto ‘danza’ sulla tela al ritmo dell’inconscio.
Il periodo di fortuna fu breve per l’artista che, dopo aver raggiunto l’apice, decise di abbandonare la tecnica che lo aveva portato al successo. Forse fu proprio la notorietà, quella stessa che gli aveva procurato fortuna, a spegnere la creatività del pittore. D’altronde, anche Peggy Guggenheim era convinta che, per via del suo carattere, non sarebbe durato a lungo sotto i riflettori. “Era un uomo contraddittorio. Così timido e difficile da presentare alla gente e nervoso. Arrivava sempre sbronzo e per questo non avrebbe potuto farcela da solo”. Quella constatazione aveva un fondo di verità, ma ad aver aiutato Pollock non sarebbe stata solamente Peggy.
Alcuni studiosi, infatti, avanzarono l’ipotesi che dietro la popolarità del pittore ci fosse l’operato della Cia. Lo scopo dell’organizzazione sarebbe stato quello di sminuire il movimento del realismo socialista promuovendo la libertà d’espressione, in accordo con la politica del long leash (“guinzaglio lungo”).
Pollock e la scuola di New York – per usare le parole di Eva Cockroft – erano “armi per combattere la Guerra fredda”. Tali supposizioni vennero in seguito confermate da Donald Jameson, un ex funzionario della Cia, che per primo – in un articolo del 1995 pubblicato da “Indipendent” – ammise il sostegno dell’agenzia nei confronti di artisti ed intellettuali.
“Per quanto riguarda l’espressionismo astratto, mi piacerebbe poter dire che l’ha inventato la Cia – scherza durante intervista – Ma credo che quello che facemmo realmente fu riconoscerne la differenza. L’espressionismo astratto era il tipo di arte che ci permetteva di far apparire il Realismo Socialista ancor più rigido di quanto non fosse in realtà. E questo confronto fu fatto apertamente in alcune mostre. In un certo senso la nostra operazione venne favorita da Mosca che, in quei giorni, era particolarmente dura nel denunciare ogni tipo di non conformità alle sue rigide regole”.
Che Pollock e gli altri esponenti della scuola di New York fossero a conoscenza di questo piano è improbabile. Quello che è certo però, è che il loro contributo garantì agli Stati Uniti il primato mondiale nel panorama artistico contemporaneo.
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