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Perché non riusciamo ad ascoltare musica nuova? Per molti ascoltare musica nuova può essere un'esperienza terribile e faticosissima. Ne vale davvero la pena?

Ascoltare musica nuova può essere davvero un’impresa. D’accordo: niente a che vedere con lo scalare una montagna o aggiudicarsi al primo colpo un abbonamento per Glastonbury, ma esplorare musica che non conosciamo ci viene davvero difficile.

Senz’altro molto più difficile rispetto all’ascoltare musica che conosciamo già. Preferiamo di gran lunga muoverci dentro mura che ci sono familiari, piuttosto che lanciarci in pericolosi viaggi alla ricerca di musica ignota. Forse perché, ed è legittimo, cerchiamo nella musica qualcosa da ricordare piuttosto che esperienze sconosciute.

Arrivati a trent’anni, abbiamo già, tutti, un catalogo immenso di canzoni che ci hanno accompagnato durante la nostra vita. Così, incastrati come siamo nei ritmi imposti dalla società, preferiamo rituffarci nel familiare comfort che esse ci offrono.

Una questione di… plasticità

Ornette Coleman, il maestro dell’improvvisazione nel free-jazz (fonte: wikimedia commons)
Ornette Coleman, il maestro dell’improvvisazione nel free-jazz (fonte: wikimedia commons)

Niente di strano, sia chiaro. C’è anzi una spiegazione neurologica dietro il nostro desiderio di rifugiarci in suoni che ci sono cari. Ci può aiutare a capire come mai affrontare brani sconosciuti (e tra breve capiremo in che senso “sconosciuti”) è spesso un’esperienza spossante.

Il nostro cervello ha una caratteristica meravigliosa: la plasticità. Significa che esso è in grado di adattarsi ogni qualvolta riconosce nel mondo nuovi schemi. Per quanto riguarda la musica, il cervello utilizza una rete di nervi per catalogare i diversi pattern sonori. Ogni volta che esso sente un suono che aderisce a questi modelli (che già possediamo) i neuroni rilasciano una certa dose di dopamina, il neurotrasmettitore alla base del meccanismo del piacere. In sostanza, questa è la ragione per la quale la musica sa scatenare forti reazioni emotive. Un esempio? La progressione di accordi più abusata della musica pop: I, V, VI, IV. Questo è un pattern che abbiamo interiorizzato perfettamente, e quando parte alla radio un brano come “Someone Like You” di Adele il nostro cervello sa cosa fare. Riconosce quel pattern come familiare e quindi rilascia una certa quantità di dopamina, che per noi è come una piccola ricompensa.

Per questo le cose che già conosciamo ci piacciono tanto. Ed ecco perché tantissime delle canzoni che hanno scalato le classifiche hanno tutte la stessa struttura. È una questione di – diciamo così – marketing neurologico.

La paura dell'ignoto

Quando però ascoltiamo qualcosa che non è ancora stato mappato a sufficienza dalla nostra testa, i neuroni rilasciano una quantità eccessiva di dopamina e quella musica ci appare sgradevole. Facciamo un esempio: per un ascoltatore abituato unicamente alla musica pop, una delle esperienze più faticose potrebbe essere l’ascolto di un disco di Ornette Coleman. Il free-jazz ha infatti esasperato al massimo la componente dell’improvvisazione, arrivando a scardinarne ogni minima regola. Eppure ha aperto scenari nuovi, inediti, ha contribuito a tracciare nuove strade. Nuove strutture, anche.

Passare dalla discografia di Adele direttamente a quella di Coleman è come lanciarsi da soli col paracadute senza aver fatto neppure una lezione. Magari ce la caviamo, ma di certo non vorremo ripetere l’esperienza. Insomma perché, quindi, impiegare del tempo ascoltando qualcosa che molto probabilmente non ci piacerà?

Musica sconosciuta, musica scandalosa

Devono essersi fatti la stessa domanda molti degli spettatori alla prima di Le Sacre du Printemps, opera per balletto del 1913 di Igor Stravinskij. Era una sera di fine maggio e al Théâtre des Champs-Élysées andò in scena il più clamoroso scontro tra la tradizione e l’innovazione. Quando l’opera iniziò, con un fagotto che produceva un suono acuto e fastidioso, dal pubblico cominciarono a levarsi risate che diventarono via via sempre più fragorose.

Per molti, quella musica sconosciuta era semplicemente inascoltabile: i loro cervelli, in un certo senso, andarono in tilt. Ben presto, tutto il teatro si ritrovò in una bolgia di ululati, grida, qualcuno lanciò addirittura della verdura sul palco. Una cinquantina di spettatori furono addirittura espulsi dal teatro. Giacomo Puccini, presente quella sera, descrisse in seguito alla stampa l’opera come una “completa cacofonia”. Ebbene: oggi La Sagra della Primavera è ritenuta una delle più radicali e influenti opere mai composte. Le intuizioni che contiene crearono i presupposti per lo sviluppo del jazz, della musica elettronica e di quella sperimentale che nacquero da lì a pochi anni. Forse la platea di quella sera non si aspettava di imbattersi in qualcosa di così innovativo. Voleva, legittimamente, ascoltare della musica rassicurante, conosciuta e si ritrovò invece a fare un salto nell’ignoto, tornando a casa con residui di verdura appiccicati ai vestiti.

Una moderna rappresentazione di Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij (fonte: wikimedia commons)
Una moderna rappresentazione di Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij (fonte: wikimedia commons)

Alla ricerca del nostro Stravinskij

Oggi viviamo circondati da panorami sterminati fatti di artisti, playlist, video. Vaghiamo spesso alla ricerca di brani nuovi, questo è vero, ma il nuovo rimane vecchio se ha la veste del conosciuto. In un’epoca così incerta poi, nel bel mezzo di una pandemia, cercare rassicurazioni nella musica può essere quasi fisiologico. Lo abbiamo visto con i concerti collettivi, lo abbiamo probabilmente sperimentato nell’esperienza personale.

Che senso può avere, allora, ascoltare nuova musica e esporci all’eventualità di trovarla difficile e spiazzante? Forse perché là fuori può esserci il nostro Stravinskij, nascosto tra le migliaia di uscite del venerdì. È un modo per non rimanere incastrati nel presente che rigenera all’infinito sé stesso, stancamente.

Se vogliamo allargare gli orizzonti dobbiamo accettare il rischio di trovarci in mezzo alla bolgia di quella sera a Parigi. Il rischio di rimanere sconvolti, anche di non capirci nulla. Lo dicevamo: il nostro cervello è straordinariamente plastico e più lo alleniamo a riconoscere schemi nuovi, più sarà in grado di applicarli.D’altra parte, un paio di anni dopo la prima esibizione, dovunque in Europa la Sacra della primavera venne accolta con un entusiasmo incredibile. La gente che lanciava ortaggi sul palco dovette ricredersi.



Antonella Maffei
Antonella Maffei

Editor della sezione musica

Violoncellista con una passione per la salsa, amo scrivere delle mie passoni e di quello che mi colpisce. In particolare di musica e concerti.